Non so bene cosa mi spinga oggi a parlare del tema della Great Resignation. È una domenica di sole che mitiga il freddo che ancora si fa pungente e mi ricorda, ad esempio, quanto sia bello camminarci dentro se sei coperta abbastanza.
Il punto è che non posso uscire. O meglio, posso farlo a patto che ci sia qualcuno con mio figlio che è in isolamento preventivo (il che mi porta a cercare una soluzione e non necessariamente ad avere un punto di vista rassegnato sulla faccenda). Sono dentro uno degli innumerevoli pit stop forzati che questo tempo ci sta, per così dire, regalando.
Ma comunque.
Ho questa cosa che parto sempre dalle parole. Non credo ci possa essere altra via- per me, almeno- di concentrarmi sul significato delle cose. E se “resignation” vive nella polisemia di “dimissioni” e “rassegnazione”, ci dev’essere un legame forte tra questi due concetti che li pone- se non altro- in uno stato di consequenzialità.
A ottobre la bomba è esplosa.
I lavoratori e le lavoratrici, a livello globale, non stanno semplicemente lasciando la forza lavoro; milioni di persone stanno riconfigurando le loro carriere. Alcune stanno sfruttando l'attuale crisi delle assunzioni per ottenere posizioni migliori e altre hanno scelto di passare alla libera professione, con un’ascesa nei numeri mai registrata prima.
E se è corretto chiedersi come mai, è forse più necessario capire da dove arriva questo senso di cambiamento improvviso e pervasivo.
Siamo entrati nell’anno numero tre dell’era pandemica. In generale, nonostante a livello mediatico la copertura di ogni singolo aspetto della pandemia sia massiva, tendiamo a dimenticarcene, incorporando nuove abitudini e strategie per far fronte a nuovi problemi. Di nuovo, spostando un po’ della polvere sotto il tappeto in attesa che il riposizionamento del tappeto stesso dia una misura del problema polvere.
La pandemia che non è mai esistita
Ho ascoltato molte persone raccontarmi di quanto le aziende in cui lavorano semplicemente abbiano fatto finta, a un certo punto, che la pandemia fosse finita. O meglio, non fosse esistita affatto. Certo, può esser vista come una modalità resiliente di dirigere gli sforzi per rimanere in piedi, un po’ come quando sai che il tuo partner ti tradisce ma fai finta di niente per sopravvivere, di qualunque tipo di sopravvivenza si stia parlando qui. La caduta può esser troppo forte, da un’altezza troppo grande, ci sono bambini in mezzo, non si ha la capacità o gli strumenti per affrontare le cose davvero.
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Ne parlo con un parallelismo relazionale perché è di relazioni che stiamo parlando. E sì, piuttosto che rassegnarsi a qualcosa di troppo grande, ci si dimette da un certo ruolo, per assumerne altri contemporaneamente.
I datori di lavoro che fanno finta che ehi, va tutto benissimo e stiamo anche crescendo, non dicono il falso, semplicemente mettono in campo dinamiche di potere che- purtroppo o per fortuna- conosciamo da tempo.
E credono di avere il coltello dalla parte del manico.
Se trema il sistema
Personalmente, accolgo con estremo favore quello che vedo come un cambiamento sismico nella relazione di potere tra aziende e lavoratorə. E se le nostre relazioni personali non funzionano in contesti in cui ci sentiamo controllati o dati per scontati perché dovrebbero quelle professionali?
Con l’avvento dell’home working ci è stata fornita la possibilità di comprendere come gestire il lavoro all’interno delle nostre vite, a differenza di ciò che avevamo fatto fino ad allora: incastrare la vita all’interno del lavoro.
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E se da un lato questa consapevolezza ci ha mostrato una nuova modalità che incorporava al suo interno i concetti di libertà e flessibilità, dall’altro ha (spesso) stretto le catene del controllo, innescando un contraccolpo ormai non più accettabile.
La relazione gerarchica è diventata quindi non una relazione fiduciaria ma basata sul retropensiero che le persone in home working non possano- e non debbano- farlo in autonomia, in modo flessibile, conciliando diversi aspetti delle proprie vite. Questa relazione di potere si fa stringente nelle proprie maglie proprio da quelle aziende che fingono che la pandemia sia un lontano ricordo. E questo, naturalmente, ha il fine ultimo di voler riportare le persone negli uffici.
Sotto controllo, appunto.
Tante, tantissime persone, sono preoccupate per la propria salute mentale. Nonostante i proclami delle aziende di mettere al primo posto la sicurezza mentale e fisica deə proprə lavoratorə, le cose non sono andate proprio secondo i piani. Mediamente, il fatto di esser malati, sotto stress, in burnout, ansiosi per il futuro o semplicemente spaventati, il fatto di dover gestire i continui isolamenti o la didattica a distanza deə figlə, non rientra nell’agenda sotto la voce priorità. Perché le esigenze aziendali vengono sempre prima delle esigenze personali e lo fanno senza chiare giustificazioni.
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Senso e significato del lavoro
Il punto, credo, sia che a un certo momento le riflessioni su senso e significato del tema complesso che è il lavoro siano arrivate ad una dimensione per cui, come si dice, il gioco non vale più la candela. Le dinamiche relazionali e di potere tra aziende e persone hanno sempre fatto a meno di una variabile fondamentale come il libero arbitrio, strutturandosi quindi in un rapporto di forza estremamente sbilanciato.
Cosa succede quindi quando un migliore equilibrio tra vita e lavoro pare possibile? Che le persone compiono scelte deliberate su dove dirigersi perché culturalmente (e intendo proprio come “cultura del lavoro”) abbiamo sempre sopportato troppo.
Ci è stato insegnato ad andare avanti qualunque cosa accadesse e questo ha portato a tutte quelle dinamiche tossiche e normalizzate come il sentirsi molto cool quando lavoriamo 14 ore al giorno, quando siamo perennemente sotto pressione, quando chi sta sopra di noi ci fa sentire disprezzatə, non all’altezza, inutili. Tutte quelle chiamate agli orari più impensati, la casella mail che si riempie a ogni ora del giorno o della notte, il non essere ascoltati o considerati, il non dormire, la compensazione disfunzionale.
Nelle dinamiche di potere lavorative chi sta in cima alla scala gerarchica non si misura mai con la reale possibilità che chi sta alla base possa, effettivamente, scegliere.
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Soprattutto per i knowledge worker, con la grande disponibilità di posizioni in modalità ibrida o full remote, le dinamiche di potere si stanno ribaltando.
Ed è davvero ora che le aziende riconsiderino i loro purpose gridati nelle campagne di comunicazione (People first! Le persone al centro! We are humans!), che si allineino con i fatti alle parole che campeggiano nei loro siti web, che costruiscano modalità e ambienti in grado di accogliere le infinite variabili con cui la pandemia ci sta chiedendo di misurarci. Perché alla fine, saranno quelle in grado di tenersi stretti i talenti che le fanno prosperare. Chiaro, se ne riconoscono il valore, cosa di cui, al momento, non sono sicura.
Nulla cambia se gestiamo tutto come prima
Continuo a vedere e sentire richieste aziendali che non hanno senso, blindate nella loro rigidità. Aziende che non si curano (nel senso latino del termine) delle proprie persone. Che non le vedono, non le ascoltano e chiaramente non le comprendono. Che non sanno fare altro che trincerarsi nel mantra della continua richiesta, incapaci di formulare risposte dialogiche di scambio.
È una grande rivoluzione, questa. Come tale non sarà accolta con giubilo e all’unanimità, perché in ogni sistema che viene scosso si tenderà sempre a cercare di fagocitare l’elemento che quella scossa la provoca.
La vedo come una transizione, bella, importante. Qualcosa che può ridarci la dimensione dell’umano, proprio nell’ambito che purtroppo tende a schiacciarlo. Possiamo lavorare e farlo se non con felicità, almeno con serenità. Lo so, sembra la scoperta dell’acqua calda.
Ma quanti di noi l’hanno mai fatto davvero?
Mi piacerebbe, se vorrai, ascoltare la tua storia.