Il lavoro è intollerabile
Per molti e molte di noi. Ma abbiamo una possibilità: costruire una nuova normalità più a nostra immagine e somiglianza. Solo che non possiamo farlo da solə.
Ho pensato moltissimo in questi ultimi mesi alla faccenda: lavoro.
Non da sola, certo, ci sono state riflessioni collettive e riflessioni più o meno vomitate dai giornali e in generale sui social media.
Ecco, ho sentito in tutte una stanchezza molto più che latente, una stanchezza reale e percepibile su più livelli. Una stanchezza vera, che si tocca con mano, che non è arrivata di botto ma ha serpeggiato strisciando attraverso gli anni per approdare nel qui ed ora e apparirci intollerabile.
All’indomani delle dichiarazioni di chef, imprenditori, personalità varie che si sono sperticate nella consueta narrativa che vuole ə giovanə non aver voglia di fare la gavetta e quindi per esteso di lavorare, mi sono seduta un attimo, contato fino a otto (perché a dieci non ci sono arrivata) e poi finalmente detto un gigantesco vaffanculo.
Eh lo so, ma chi è senza peccato eccetera eccetera.
Perché poi sono tornata con la memoria a tutti i posti di lavoro che ho cambiato nel corso degli anni, alle loro dinamiche, alle persone tossiche con cui ho condiviso le giornate. Mi sono fermata a pensare a quanto crediamo sia normale passare più tempo con i colleghi che con le nostre famiglie, i nostri amici, le persone che amiamo e che abbiamo scelto.
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A quanto, con una pandemia di mezzo e nel quasi post pandemia, continuiamo a reputare normale che il lavoro occupi nelle nostre vite più spazio di tutto il resto. A quanto ci faccia male, il più delle volte, a quanto ci sfibri e ci consumi.
Qualche giorno fa è stato il primo maggio, la Festa dei Lavoratori. Se le lavoratrici non sono contemplate nel maschile sovraesteso, nella realtà dei fatti non è che mi stupisca granché but anyway.
Con la riconfigurazione attuale degli scenari professionali, con gli statement delle più grandi aziende che stanno sostanzialmente dirigendosi verso il full remote (l’ultima, solo per ordine di tempo Airbnb, che ha dichiarato che chiunque potrà lavorare dal luogo che preferisce), con la Great Resignation (di cui ho parlato in precedenza qui) e con la salute mentale di tante e tanti sempre a un passo dal crollo, dal burnout, sempre sul filo mi sono detta: ma se domani tutto questo non esistesse più? Se domani potessimo fare tabula rasa, sederci attorno a un tavolo e scegliere il nostro posto di lavoro, cosa non saremmo più dispostə a tollerare?
L’ho chiesto alla mia community di Linkedin e ho ricevuto molte risposte.
Le persone che si riconoscono nel genere femminile hanno riposto nella misura del 50% in più rispetto a quelle che si riconoscono nel genere maschile, giusto per dare una proporzione.
È emerso, più di ogni altra cosa, il rifiuto categorico allo sfruttamento, all’iperconnessione costante (che di certo è stata aggravata dalla pandemia), al mobbing e al mansplaining.
La parola “tossico” riferita a luoghi di lavoro o a comportamenti è una delle più ricorrenti. Così come il concetto della “passione” come alibi che deriva dalla concezione distorta che se ami il tuo lavoro allora è abbastanza. Puoi fare straordinari non pagati, piegarti a contratti indecenti, guadagnare poco, sobbarcarti più lavoro di quanto tu possa sostenere perché c’è lei: la passione. E se non c’è allora non vali abbastanza. Qui vogliamo persone appassionate, che possano fare straordinari non pagati, piegarsi a contratti ridicoli eccetera.
Un loop incredibilmente sbagliato, una forma di sfruttamento che usa la manipolazione e il ricatto morale.
Alcune persone che hanno scelto la libera professione non sono più disposte ad accettare di lavorare con gli oneri dei dipendenti, ma senza i loro diritti. Conosciamo bene questa manfrina tutta italiana no? Sei a tutti gli effetti un o una dipendente, ma dividi con l’azienda il rischio d’impresa. Senza però mai dividerne i profitti.
Malattia, ferie, maternità, tredicesima non ti spettano però ehi: noi contiamo davvero tantissimo sul tuo lavoro.
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“Salute mentale” e “qualità della vita” sono due altri filoni ricorrenti (oltre a essere due diritti inalienabili), insieme al rifiuto netto delle aggressioni o micro aggressioni costanti da parte di colleghi o superiori. “Rispetto” è un’altra delle parole che sono state pronunciate di più. Viene fuori che ce ne sia poco, pochissimo, a tutti i livelli.
Un paio di commenti mi hanno colpito nel profondo. Il primo:
“Non sono più disposta ad accettare di dovermi sentire come una macchina: instancabile, iperproduttiva, senza margine di errore.”
Il secondo:
“Non sono più dispostə ad accettare chi si afferma con le urla, chi tira in mezzo il piano personale per svilire il lavoro di una persona, chi dice "io non sono come loro" e poi infatti è peggio, chi fa abilismo, ageismo, queerfobia, chi toglie dignità alle persone ponendole in condizioni contrattuali non eque, chi impone il lavoro in ufficio a ogni costo perché altrimenti non può tenere lə dipendentə sotto controllo, chi mi tratta come un'idiota solo perché passo al femminile e ho la metà dei suoi anni, e soprattutto, chi mi dice che non mi dovrei ribellare e dovrei accettare tutto perché già grazie che mi stanno facendo lavorare con i tempi che corrono”
Mi sono sentita spesso ingabbiata nel dovere di iper performare, di essere instancabile, iperproduttiva e senza margine di errore. Ho idea che sia qualcosa che facciamo meno fatica a pretendere dalle donne e che per questo le schiaccia a livello professionale, considerato il carico di lavoro che hanno fuori casa e il carico mentale. Di nuovo, uno di quei loop impossibili da spezzare, sembra. Forse perché nei posti di potere ci sono seduti di norma gli uomini?
E poi, quella malsana idea che il lavoro sia qualcosa per cui rendere grazie. Il lavoro come favore. Mi ha fatto molto male leggere questo commento perché per un attimo ho pensato che sì, tante e troppe volte ho percepito una vena nemmeno poi così sottile di ricatto psicologico nei miei datori di lavoro. Ed è stato piuttosto atroce questo pensiero che mi è occorso il primo di maggio, proprio nel giorno in cui il lavoro si celebra: il lavoro come diritto costituzionale.
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Ovviamente, questo piccolo sondaggio potrebbe non voler dire molto: il campione è piccolo. Però credo sia una finestra abbastanza autentica del malessere e della stanchezza generale delle persone a dinamiche incancrenite di una società volta troppo al profitto e troppo poco al considerare chi quel profitto contribuisce a generarlo.
E per questo mi torna in mente lo chef che dal suo privilegio sproloquia su quanto sia importante lavorare gratis per imparare un mestiere. Senza fare un minimo di esercizio di profondità, senza calarsi nelle vite che privilegiate non sono e che non possono, materialmente, vivere senza la sussistenza che proviene da un compenso lavorativo.
E anche per questo ho pensato alla grande quantità di cose che reputiamo normali: l’umiliazione sul luogo di lavoro, l’incertezza, le aggressioni, il non riconoscimento del valore delle persone, il passare dieci ore al giorno con dei perfetti estranei invece che con le persone che abbiamo scelto, i più basilari diritti negati.
Non ho di certo soluzioni e se le avessi non starebbero dentro una newsletter. Però mi è venuto da pensare che “normale” è una categoria di pensiero. Cento anni fa il lavoro minorile era normale, duecento lo era la schiavitù.
Forse abbiamo il potere di riconsiderare questa categoria, di darle contorni nuovi. Di farlo in maniera collettiva, come collettivamente abbiamo iniziato le riflessioni intorno a questo argomento.
Perché se il new normal è qui ed è qui per restare è probabile che sia ancora da costruire e allora, mi dico forse utopisticamente, possiamo costruirlo a partire da ciò che non vogliamo più tollerare.
Mi piacerebbe che questa riflessione partita su Linkedin potesse diventare uno studio più allargato. Siamo quasi 1000 su Between The Lines, potrebbe essere un campione ragguardevole.
Fatemi sapere se può essere una buona idea rispondendo a questa mail, così potrò predisporre un Google Form per il sondaggio.
Per ora è tutto,
teniamo duro.