Houston, magari avessimo solo un problema
Il washing ci sembrava l'insidia peggiore dei Brand? Non avevamo ancora visto nulla.
C'è qualcosa di profondamente snervante- almeno per me- nel vedere sei donne lanciare i propri corpi a 100 km di altitudine mentre sulla Terra si sgretolano sessant'anni di diritti faticosamente conquistati. La missione Blue Origin non è solo un caso di pinkwashing: è una perfetta cristallizzazione della fase terminale del capitalismo neoliberista, dove persino la resistenza alle discriminazioni di genere diventa merce di scambio nel mercato dell'attenzione.
Quella che abbiamo letto dai giornali non è solo un'operazione di marketing mal calibrata. Inaugura una nuova fase dell'economia dell'identità, in cui la rappresentanza femminile — svuotata di ogni contenuto politico reale — viene trasformata in asset finanziario.
L'oligarca non ha bisogno di credere nei diritti delle donne.
Gli basta poterli quotare in borsa.
Il pensiero perverso dell'operazione sta nella sua capacità di sfruttare il linguaggio emancipatorio per mascherare un'impresa fondamentalmente reazionaria. L'equipaggio femminile non rappresenta l'avanzamento delle donne, ma la loro incorporazione come complici volontarie in un progetto che simultaneamente celebra la loro presenza simbolica mentre erode la loro posizione materiale.
Per comprendere pienamente la strategia di Bezos, dobbiamo abbandonare il lessico edulcorato del marketing contemporaneo che tanto ci è caro e reputiamo forma sofisticata di manipolazione e tornare all'analisi del potere. Non parliamo più di una "disconnessione tra valori dichiarati e azioni concrete", eufemismo che presuppone buone intenzioni frustrate da cattiva esecuzione. Parliamo, piuttosto, di una manovra diversiva che utilizza consapevolmente la politica dell'identità come paravento per un'agenda economica e sociale profondamente conservatrice.
La vera innovazione di Blue Origin non è tecnologica, ma ideologica: il perfezionamento dell'arte di vendere regressione politica come progresso culturale.
La comprensione di come, nell'economia dell'attenzione, l'apparenza di diversità genera più engagement delle politiche che realmente proteggono le minoranze.
La foto dell'equipaggio femminile genera milioni di impressioni; la revoca dell'ordine esecutivo del 1965 che proteggeva le lavoratrici dalla discriminazione viene relegata a un trafiletto nei media specializzati.
(Credit Image: © Cover Images via ZUMA Press)
I brand old school facevano greenwashing per occultare il proprio impatto ambientale. I brand del new cool fanno identity-washing per mascherare il proprio ruolo nell'economia della disuguaglianza.
Il secondo è forse più insidioso perché sfrutta e monetizza le stesse lotte che dovrebbero opporsi al sistema che rappresenta.
È significativo che la missione Blue Origin si svolga nell'era del platform capitalism. Come i social media hanno trasformato le relazioni umane in dati vendibili, così l'industria spaziale commerciale trasforma l'emancipazione femminile in contenuto spettacolarizzato. In entrambi i casi, l'autenticità umana viene estratta, processata e rivenduta come simulacro di sé stessa.
Sarebbe stupendo se questo fosse un fallimento comunicativo. Ma non lo è. Il dramma è come, invece, sia un successo strategico. Mentre discutiamo di quanto fossero inadeguate le extension alle ciglia di Sánchez atte a flutturare in assenza di gravità, non stiamo parlando del collasso strutturale dei diritti delle lavoratrici a cui il suo compagno si è premurato di contribuire in forma massiva.
Il pinkwashing funziona esattamente come progettato: cattura l'attenzione, devia la conversazione, esaurisce l'energia critica.
La missione utilizza il linguaggio dell'accessibilità e dell’empowerment — "aprire le porte alle donne nelle STEM" — mentre rappresenta il culmine dell'inaccessibilità: un'esperienza di undici minuti riservata a chi può permettersi 1,25 milioni di dollari o a chi ha le connessioni giuste. Bezos ha compreso meglio di chiunque altro che nell'economia dell'informazione, la vera ricchezza non deriva dal controllo dei mezzi di produzione, ma dal controllo delle narrazioni. E quale narrazione più potente di quella che permette al capitale di presentarsi come alleato delle stesse persone che sfrutta?
Per le aziende che osservano questa dinamica, la lezione non è "siate più autentiche" — consiglio ingenuo che presuppone che l'autenticità sia ancora possibile all'interno dell'attuale sistema economico. La vera lezione è che viviamo in un'epoca in cui la democratizzazione superficiale dell'immagine maschera la concentrazione profonda del potere.
Nell'architettura del neo-feudalesimo digitale, il brand value è diventato una forma di accumulazione primitiva: estrae valore dalle identità marginalizzate esattamente mentre le politiche sostenute dagli stessi conglomerati accelerano la loro marginalizzazione materiale. Non è un'incoerenza, è un modello di business.
Il caso Blue Origin rivela una verità scomoda: il marketing identitario non è la soluzione al problema della disuguaglianza, ma uno dei meccanismi attraverso cui la disuguaglianza si riproduce e legittima nell'era digitale. Quando sei donne vengono lanciate nello spazio mentre milioni di altre vengono private di protezioni fondamentali, non percepiamo solo la distonia di un messaggio contraddittorio. Stiamo inquadrando un messaggio perfettamente coerente sulla fungibilità delle identità e l'irrilevanza dei corpi non privilegiati.
Frame dal video condiviso su Instagram da Katy Perry
"We’re putting the Ass in Astronaut", ha dichiarato Perry, sintetizzando (in)volontariamente l'intera operazione: la femminilizzazione estetica di strutture di potere che rimangono fondamentalmente immutate. Il guscio esterno cambia, l'interno rimane lo stesso. Un'astronauta donna su un razzo finanziato da un miliardario che sostiene politiche anti-femministe non è progresso — è esattamente come appare il patriarcato nell'era dell'inclusività performativa.
Per i brand che cercano di navigare questo territorio, la domanda non è più come evitare le accuse di pinkwashing. La domanda è se un marketing veramente progressista sia possibile in un sistema economico intrinsecamente estrattivo. Pochi brand sono pronti ad affrontare questa contraddizione fondamentale. Li capisco, ci mancherebbe.
Forse è per questo che continuiamo a vedere operazioni come quella di Blue Origin: non perché i brand non capiscano che i consumatori riconoscono il pinkwashing, ma perché l'alternativa — un autentico allineamento tra valori e pratiche — richiederebbe una riconfigurazione del capitale che le stesse aziende non possono permettersi senza minare le fondamenta del loro potere.
L'equipaggio femminile di Blue Origin non segna il trionfo del femminismo, ma la sua cooptazione finale: il momento in cui la lotta per l'uguaglianza di genere, invece di sfidare il potere, viene invitata a bordo solo per scoprire che il vero viaggio è la sua neutralizzazione come forza politica trasformativa.
~ Nell'era della trasparenza totale, l'unico posto sicuro è la verità.
Un paio di appuntamenti di Maggio
Torino, 17 Maggio, ore 18 30
Presentazione del libro “Rivoluzione non binaria” di Lou Ms. Femme,
Barbara Centrone e la sottoscritta, in dialogo con l’autorə presso la Libreria Nora Book and Coffee.
Firenze, 23 Maggio
Dirò delle cose- spero intelligenti- a Videns Festival, evento alla sua seconda edizione, che abbraccia comunicazione, marketing e creatività, con una lista speaker che fossi in voi non mi perderei.
Ho scritto titolo e abstract, non faccio spoiler ma ha a che fare con le serie tv. E l’intrattenimento. Che poi è interessamento.
Shhhhhhh.
Come sempre ci vediamo in giro, come sempre se vi va.Cheers.